È stato uno dei più grandi tenori del XX secolo Giuseppe Di Stefano: "L’arte del parlar cantando"
“Se tornando a nascere potessi scegliere, rifarei le stesse cose: tenore prima e scrittore dopo! In fondo, ora che ci penso, non c’è grande differenza tra le due professioni, poiché in tutte e due si tratta di ricreare delle immagini rivivendole, una con la voce e l’altra con la penna. Ho cantato senza essere musicista e scrivo senza essere un letterato; anche in questo senso c’è un’analogia fra le due professioni: per entrambe, bisogna esserci nati!”,
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Giuseppe Di Stefano e Maria Callas. |
Questa sono le parole che Giuseppe Di Stefano ha voluto inserire nel risvolto di copertina del suo libro “L’arte del canto” nel quale l’autore parla sulle doti che un cantante deve possedere e su come deve studiare e vivere l’arte, due cose che per Di Stefano si identificano; la seconda parte del libro, invece, è costituita dal racconto autobiografico della gioventù di un futuro grande tenore. E al di là delle doti canore che madre natura gli ha fornito in eccezionale misura, ciò che di Di Stefano ne ha fatto un mito è stato quel suo modo di porgersi e di interpretare ogni personaggio con la sensibilità di un autentico artista, in tutti i sensi. Unendo al “canto” (un suono potente, limpido e chiaro con una dizione perfetta che nessuno dopo di lui è stato più in grado di presentare), la “recitazione” da grande attore di teatro e una personalità esuberante. Quei critici meno faziosi e meno influenzati dalla visibiltà popolarcommerciale di alcune note “star” interpreti del registro tenorile venuti alla ribalta dopo di lui lo hanno “giustamente” identificarlo come il primo e vero erede del “Grande Caruso”. Un’eredità che Di Stefano si è conquistato cantando e trionfando nei maggiori teatri del mondo, in particolare negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, con l’inaugurazione per ben tre anni di seguito della stagione del Teatro alla Scala e con il sodalizio artistico con l’altro registro vocale più celebre e celebrato di quei tempi (e forse di sempre): Maria Callas.
Giuseppe Di Stefano era nato a Motta Sant’Anastasia in provincia di Catania nel 1921 e dopo aver cantato in alcuni spettacoli di varietà con il nome d’arte di Nino Florio, ha inciso all’età di 26 anni il suo primo disco, la Manon di Massenet. Dopo il debutto a Reggio Emilia sempre nella Manon, Di Stefano l’anno dopo canta già Alla Scala di Milano, il teatro che da allora diventerà il suo palcoscenico per un quarto di secolo: 26 titoli in programma e ben 185 recite. E sì che negli anni del suo debutto in quel teatro cantavano artisti come Gigli, Schipa, Del Monaco, Lauri Volpi, Masini, Merli, Tagliavini, Albanese, oltre ad altri celebri cantanti seppur non di registro tenorile come: Bechi, Gobbi, Tagliabue, Stabile, Taddei, Silveri, Tancredi Pasero, Neri, Siepi, Tajo, Rossi Lemeni, Christoff. Ma la sua voce squillante e pura e il modo spavaldo di mettersi sulla scena ne hanno fatto ben presto il “tenorissimo del XX secolo” per antonomasia e il personaggio del mondo operistico più amato e osannato dal pubblico. Ma la vita di Di Stefano, Pippo per gli amici e per il pubblico che meglio lo ha conosciuto e quindi maggiormente lo apprezza, è comunque sempre stata molto simile ai personaggi da lui interpretati sulla scena. Scoperto da un amico durante una partita a carte che lo spinse a coltivare il suo talento, studiò dapprima con il baritono Luigi Montesanto, apprendendo poi l’importanza della dizione con un altro baritono, Mariano Stabile. E nessuno, né prima, né dopo di lui, è stato più in grado di esprimere una dizione così perfetta: il cosiddetto “parlar cantando”! Tuttavia, il merito di essere riuscito a “perfezionare” a tale punto la voce e a fare “uscire” dal diaframma suoni e parole in modo così impeccabile è anche da attribuirsi al Maestro Tocchio che resosi conto del “tesoro” di cui era dotato Di Stefano gli impartì gli insegnamenti “tecnici” atti a perfezionare una voce di natura già perfetta. Nel 1948 Di Stefano esordì al Metropolitan nella parte del Duca di Mantova nel Rigoletto, cantando regolarmente, sempre in quel teatro, per il decennio successivo, oltre ad esibirsi nei più importanti teatri degli Stati Uniti e del Messico. Appena giunto a New York, lo stesso Toscanini si mise subito in contatto con lui per dargli il benvenuto e lo volle insieme per incidere la Messa da Requiem di Verdi. E’ di quell’epoca il suo sodalizio con Maria Callas con la quale cantò nei principali teatri del mondo oltre che in numerose tournée in Italia e all’estero. L’eleganza e la potenza della voce portarono Di Stefano ad interpretare praticamente tutti i ruoli del registro tenorile, sia quelli “a mezza voce” di Des Grieux della Manon e di Nadir dai Pescatori di perle, al Nemorino de L’elisir d’amore. Come ascoltando le sue interpretazioni si riesce immediatamente a percepire la malinconia di Alvaro nel terzo atto del La forza del destino oppure il fervore poetico e rivoluzionario di Andrea Chénier. Un tenore, Di Stefano, che è sempre riuscito ad accomunare arte e vita. Un autentico artista anche quando nella sua esistenza si sono succeduti momenti di grave difficoltà, a partire dal 2004 quando subì una selvaggia aggressione nella sua villa in Kenya, fino agli ultimi anni di grande sofferenza per un uomo sempre così impulsivo e diretto. E fino alla sua fine avvenuta il 2 marzo del 2008 nella sua casa di Santa Maria Hoè, un piccolo paese nei dintorni di Lecco.
Per la sua morte non ci sono stati proclami. Un breve flash alla TV e poco più di una mezza pagina su alcuni giornali. Ben diverso da quanto era accaduto non molto tempo prima in occasione della dolorosa scomparsa di un altro personaggio del mondo operistico. Ma si sa, il più delle volte la gente si dimentica molto rapidamente di certi grandi artisti (ciò vale per molti altri come lui) pronta sempre e solo a gettarsi a capofitto su tutto ciò che riesce meglio a commercializzarsi e ad apparire “gradito” ai critici e al pubblico del momento. Ma di Pippo Di Stefano rimangono pur sempre ad eternarne memoria e voce le migliaia di incisioni di moltissime opere e di canzoni classiche, in particolare quelle del repertorio napoletano che lo hanno visto interprete sommo e nelle quali poteva lanciare a tutto volume la sua straordinaria voce, unica e irrepetibile.
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Materiale |
Giuseppe Di Stefano: "L’arte di parlar cantando" |
saggistica |
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Autori |
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Mario T Barbero |
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Pubblicato su: Literary nr.7/2008 |
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