Un racconto
La nostra gattina: “Non possiamo forse chiamarla dignità?”
Uno
Quando l’abbiamo portata giù a far vedere, la giornata era spettacolare.
Dall’alto dei tornanti che scendevano al lago, l’orizzonte si dipanava in tutta la sua magnificenza. Il lago era colmo di cielo, il cielo era percorso da nuvole basse e veloci, le nuvole erano gonfie di pioggia e tese di vento.
Una giornata incantevole.
La diagnosi è stata infausta: un blocco renale che non avrebbe lasciato scampo. Ma vale sempre la pena dare una chance. Fosse anche l’ultima. Non resta quindi che provare con un ricovero di alcuni giorni per verificare la risposta ad una sorta di dialisi con fleboclisi due volte al giorno associate ad una massiccia terapia antibiotica.
Al termine della settimana i risultati sembrano incoraggianti.
Ripercorriamo i tornanti, in salita questa volta. Verso casa. In una giornata se possibile ancora più bella di sette giorni fa.
A casa però già dopo qualche giorno, il trattamento con le flebo inizia a rivelare la sua salvifica barbarie. La prospettiva di una vita in queste condizioni appare ben presto inaccettabile.
Decidiamo di lasciare che le cose vadano come devono andare.
L’abbiamo deciso incrociandoci con lo sguardo. Senza tanti giri di parole. Anzi, senza dire neanche una parola.
Spesso lo facciamo. Alle volte, il più delle volte, senza neppure rendercene conto. Ma lo facciamo. Questa volta non ce n’era bisogno. Di rendercene conto, intendo.
Sapevamo che la cosa non sarebbe andata avanti molto. Bisognava solo cinicamente aspettare. E neppure molto.
Due
Oggi è la giornata.
Se ne sono andati all’Ikea. Quando vanno li stanne certa che non tornano prima di sera.
Ho deciso.
Appena mi sento un po’ in forze mi alzo e me ne vado fuori. La giornata è luminosa e sembrerebbe tiepida: la giornata ideale.
Mi sento tutta scombussolata. Una sorta di ronzio continuo e disperante mi logora da giorni. Precisamente da qualche giorno prima che mi portassero giù da quei tornarti a farmi vedere. Sentivo già da allora che le cose non stavano andando bene. In questi ultimi giorni ho smesso di mangiare del tutto e ber, bevo poco. Sono debolissima. Quando cammino barcollo e devo spesso fermarmi per non cadere.
Un raggio di sole mi colpisce. Ne avverto il tepore ed anche la sua brevità temporale. Ma tant’è che quella minima occhiata di sole negli occhi mi ha stimolata. Raduno tutte le forze che ancora possiedo, mi alzo e mi incammino fuori di casa.
Appena scesa le scale ho un mancamento. Mi devo fermare. Non mi reggo in piedi ma non posso fermarmi. Non voglio che mi trovino qui quando tornano dall’Ikea. Chissà cosa saranno mai andati a comprare!
Sorrido tra me e me pensandoli intenti a guardare sempre le solite cose con il solito fioco interesse. Quest’immagine divertente mi procura uno slancio per continuare a camminare. So bene dove devo andare. Ho in mente un posto splendido. Da quando ho cominciato a non stare bene l’ho pensato tutti i giorni. E’ un luogo bello e nascosto: un posto perfetto!
Attraverso lentamente il giardino che oggi mi sembra immenso ed interminabile. Ogni tanto devo fare una sosta. Ricordo quando lo attraversavo in un battibaleno, di corsa e saltellando anche!
Con fatica raggiungo il boschetto di alloro. Dietro ai tronchi c’è il muretto della recinzione che in questo punto è piuttosto basso. Non mi sarà difficile saltarci su e la rete proprio qui è leggermente sollevata. Pelle e ossa come sono, non avrò alcuna difficoltà ad attraversarla.
Raduno tutte le forze che possiedo ancora. Le vado a raccogliere non so neanch’io bene dove. Ma le trovo con la caparbietà che non mi ha mai abbandonata. Spicco il salto sul muretto ma sono così debole che perdo l’equilibrio. Ricado ai piedi degli allori. Mi rialzo a stento. Mi sento uno straccio. Sto ferma qualche minuto. Uno due, dieci venti non lo so. Mi sento così strana che credo di aver perduto completamente il senso del tempo. Proprio io che ho sempre avuto l’innata qualità di percepire sempre l’ora giusta per rientrare in casa.
Dopo questo momento atemporale raccolgo ancora le forze. Sento chiaramente che sono le ultime e questa consapevolezza mi fa crescere l’angoscia: se fallisco anche ora mi troveranno qui e io non voglio. Voglio andare al di la della rete.
Il salto questa volta ha successo. Sono in bilico sul muretto e senza stare troppo pensare, prima che mi manchino definitivamente le forze, mi infilo sotto la rete e faccio un breve saltello atterrando esattamente dove volevo arrivare. Sono giorni che ho in testa questo posto e sono contenta di esserci arrivata.
Qui ci venivo già tanti anni fa quando la rete era in ordine poi, il peso della neve o qualche ramo di legno ostinato l’ha piegata sollevandone un lembo verso l’esterno creando il passaggio. Prima della creazione del varco, ci arrivavo dal di fuori della recinzione facendo un giro assai lungo ma che soprattutto da giovane curiosa, mi piaceva fare. Ci venivo più o meno per lo stesso motivo per cui ci sono voluta venire ora: venivo per riposare.
È il luogo più bello che io conosca di tutti i posti nei quali sono stata. C’è un cuscinetto di muschio morbido e vellutato. Vicino ci scorre un ruscelletto che lo tiene umido e smaltato di verde.
In questa stagione ci sono tutt’attorno le violette mammole. Mi piaceva un sacco venirci di questi tempi proprio per farmi delle belle dormite cullata dal profumo di violetta e con in sottofondo il dolce rumoreggiare del ruscelletto.
E poi qui non viene nessuno. Nessuno che io sappia, s’intende. Di sicuro non verranno mai loro. Qui non immaginano certo di venirmi a cercare.
Si, è proprio qui che volevo venire. È qui che voglio restare.
Mi accoccolo sul cuscinetto muschioso. Il cuore mi sembra andare a mille. Non sto benissimo. Provo ad annusare la violetta che ho sotto il naso. Niente da fare, non sento nessun profumo. E anche il corso d’acqua mi sembra mormorare lontano, tanto lontano invece scorre qui vicinissimo alle mie orecchie.
Un raggio di sole provvidenziale mi raggiunge e mi scalda un pochino. Mi accorgo così di avere freddo. Tanto freddo. Mi raggomitolo su me stessa più strettamente ma il freddo diventa sempre più penetrante nonostante il tepore dei raggi del sole. Non sono mai stata freddolosa e anche quando fuori faceva quello che gli altri dicevano “un gran freddo” io me la sono sempre spassata. Anche nella neve ci andavo senza paura. Ma adesso un gelo sconosciuto mi riempie il corpo, la testa. Sento un rumore. Chissà quanti ce ne sono stati e che non ho sentiti. Ma questo, forse più forte degli altri mi scuote. Alzo la testa, apro gli occhi ma non vedo niente. Una patina opaca e collosa mi si para davanti. Non vedo nulla. Provo paura. Faccio un lungo e profondo respiro. Penso: “sarà l’ultimo?”. Mi rannicchio stretta stretta. Un senso di leggerezza mai assaporato mi procura una fuggevole sensazione di benessere. Poi un fremito e un calore improvviso mai sperimentato prima mi scuotono in rapida successione. Penso a loro ai quali ho risparmiato di vedermi così. Mi sento soddisfatta. Mi sento pronta. Riesco ancora a sentire un leggero ruscellare poi con stupore un leggero soffio d’aria mi investe lasciandomi addosso l’ormai inaspettato profumo di violette.
Tre
Appena entrati in casa la sera tardi ci siamo chiesti dove fosse.
Nel posto dove l’avevamo lasciata la mattina non c’era. L’abbiamo cercata dapprima nei posti consueti. Poi abbiamo allargato il raggio della ricerca nei luoghi meno frequentati.
Il sottile e sempre rimandato senso di ineluttabilità iniziava a permearci.
Abbiamo aspettato che arrivasse il mattino con la sua luce per ampliare ancora di più la ricerca. Nel frattempo abbiamo anche sperato che comparisse, come al suo solito. Da un momento con l’altro come ci aveva abituati a fare con quella sua caratteristica di puntualità temporale. Sembrava sapesse sempre quando la si stesse cercando e tac… come d’incanto compariva.
Ma per via di quella crudele malattia abbiamo anche sperato esattamente il contrario. Che non la si vedesse più. Mai più.
Ancora adesso nelle nostre menti e nei nostri cuori affiora di tanto in tanto la considerazione che un gesto così, quello di andarsene via per risparmiarci l’ultimo e più triste commiato fosse stato un gesto regale, elegante. Un gesto nobile.
Non è forse anche questa la dignità?
Mauro Carlesso
Pubblicato il 2014-11-20 09:33:14.
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