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DUE O TRE COSE CHE PENSO DELLA FUSIONE REPUBBLICA-STAMPA
L’acqua non si blocca con le mani e l’orologio non si può fermare appendendosi alle lancette. In tutto il mondo la crisi che si è abbattuta sull’editoria ha determinato processi di aggregazione che hanno portato alla nascita di gruppi sempre più grandi. E’ la ovvia conseguenza di un mercato che attraverso economie di scala cerca di reperire le risorse necessarie per la transizione digitale.
Pensare che l’Italia sia immune da questi processi sarebbe illusorio e la fusione Repubblica-Stampa, alla quale con ogni probabilità ne seguiranno altre, sembra rispondere a questa logica. Come ho avuto modo di dire in assemblea ai colleghi de “La Stampa”, credo che l’atteggiamento delle organizzazioni sindacali di fronte a questi cambiamenti debba essere di attenzione ma non di paura.
Attenzione, anzitutto, ai possibili effetti occupazionali. Senza ipocrisie dobbiamo, però, dirci che i posti di lavoro dei giornalisti delle testate coinvolte nell’operazione non sono ora a repentaglio più di quanto lo fossero una settimana fa. La professione giornalistica è messa in discussione anzitutto dall’assenza di modelli economici che permettano una sostenibilità di lungo periodo: giusta o sbagliata che sia, la fusione rappresenta un tentativo per trovare un nuovo equilibrio.
Si è detto – e di questo sono assolutamente persuaso- che il solo modo per garantire i livelli occupazionali sia quello di conservare l’identità delle diverse testate. Proprio su questo aspetto, da torinese prima ancora che da sindacalista, voglio fare un paio di considerazioni, perché credo che sia la vera sfida sulla quale dobbiamo misurarci.
Se Torino, per oltre un secolo, ha avuto un ruolo di capitale intellettuale è stato anche perché ha avuto a disposizione un giornale capace di portare nel mondo il suo punto di vista. Definire La Stampa come la voce della Fiat, pur essendo stata indubbiamente anche questo, sarebbe banale e riduttivo. La Stampa è stata infatti il giornale nel quale è nata e cresciuta una parte importante della classe intellettuale e politica italiana e non è certo il caso di ricordare le firme che hanno popolato le sue colonne, da Norberto Bobbio ad Alessandro Galante Garrone. Da tempo, però, con il ridimensionamento dell’industria e i mutamenti strutturali subiti dalla città, quest’identità è venuta meno. Ridefinirne una nuova è, quindi, un impegno che deve coinvolgere, oltre che la direzione e la redazione del giornale, le forze sociali, intellettuali e le istituzioni. Se non si vuole che La Stampa divenga un giornale pensato e diretto da Roma, se si vuole che continui a essere una voce di questo territorio, è necessario pensare che ciò che accade in via Lugaro, in qualche modo, riguarda tutti.
In maniera speculare è lo stesso problema che deve affrontare la redazione torinese di Repubblica. Nell’ultimo quarto di secolo questa è stata la voce “altra” della città e sappiamo bene come questo giornale sia stato decisivo nell’accompagnare e indirizzare i cambiamenti. Oggi che mutano i connotati della voce guida di Torino, anche Repubblica sarà probabilmente chiamata a ridefinire il suo ruolo.
Si tratta di sfide intellettuali affascinanti, che non devono tuttavia far perdere di vista altri rischi concreti, primo fra tutti quello che i risparmi iniziali vengano effettuati colpendo i più deboli, riducendo ad esempio numero e compensi dei collaboratori che oggi sono indispensabili nella realizzazione dei due giornali. Non a caso ho voluto parlare anzitutto di loro nella chiacchierata avuta con il direttore della Stampa, Maurizio Molinari, e non a caso sarà questo uno dei temi che porrò con maggior forza non appena inizierà il confronto con la proprietà del nuovo gruppo.
Non meno rilevante è il rischio derivante dalle concentrazioni. La crisi, naturalmente, non è amica del pluralismo ed è lecito pensare che quello iniziato con la fusione Repubblica-Stampa sia un processo di ristrutturazione complessiva del mercato editoriale italiano. Se questo è vero e se è giusto che l’antitrust vigili con scrupolo sull’operazione, l’Italia ha allo stesso modo bisogno di leggi di sistema che assicurino il pluralismo e garantiscano una equa distribuzione delle risorse pubblicitarie. E’ necessario pensare a “blind-trust” che separino le proprietà dalle direzioni politiche delle testate, perché quelle editoriali sono imprese particolari il cui prodotto chiama in causa il bene pubblico della conoscenza. Un passaggio fondamentale sarebbe la rapida approvazione di una legge sui conflitti di interesse, tema purtroppo sparito dal dibattito pubblico del paese.
In ultimo, parlando di risorse pubblicitarie, sarebbe opportuno seguire il modello di quei paesi che hanno imposto un riequilibrio tra carta, web e sistema radio televisivo.
La strada certo non è larga ma è la sola che possiamo percorrere per assicurare un futuro all’informazione. Stagnazione, immobilismo e paura hanno come effetto certo la morte del sistema. Forse un ultimo giro di valzer sul Titanic al suono di musiche conosciute sarebbe stato più rassicurante. Io credo invece sia meglio calare le scialuppe prima che sia troppo tardi, anche se la sola musica che sentiremo per i prossimi anni sarà il rumore delle onde che ci accompagnerà nella nostra incerta traversata.
Stefano Tallia
Segretario Associazione Stampa Subalpina
mario t. barbero
Pubblicato il 2016-03-08 05:04:05.
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