Mario T. Barbero
F O G L I E
Antonio era un puro, di cuore e di spirito. Un uomo modesto e timido. Per tanti anni aveva svolto un lavoro umile, privo di gratificazioni: una formichina fra tante formichine, senza trovare la forza di reagire per modificare quello stato di cose. Quando non riusciva a prendere sonno, pensava di trasformarsi in cicala; una cicala anche per un solo giorno e bruciare in sole ventiquattrore tutta una vita. Divenire, come per incanto, coraggioso, fantasioso e spregiudicato. Ma per divenire tale, pensava subito dopo, avrebbe dovuto snaturarsi e scrollarsi di dosso le spogli di uomo semplice e ingenuo. Impossibile!
Antonio era rimasto solo al mondo dopo la morte improvvisa dei genitori e da allora si era sentito quasi inutile, sebbene sapesse che di inutile non c’era nessuno, neppure l’animale più dannoso ed inutile sulla terra. Buona colpa di quella solitudine era da imputarsi al suo carattere schivo ed alla mancanza di iniziativa, soprattutto quando si trattava di affrontare…una donna. Non si era voluto sposare per precisa scelta, anche se la verità era un’altra: non aveva mai trovato una donna che volesse per davvero unirsi a lui, come donna e come…amante. Antonio non era bello, né interessante né, tanto meno, munifico perché da sempre povero in canna. Campava in modo appena accettabile e viveva in due stanzette buie e tristi nella parte più fatiscente del centro storico della città. Con il passare del tempo il suo carattere si era fatto più accidioso ed il presente lo vedeva nelle vesti di un vecchietto un po’ ricurvo, pieno di acciacchi, con alle spalle un’esistenza piatta e monotona; una vita trascorsa tra cumuli di dubbi e pochissime certezze, tra brevi istanti lieti e molti momenti tristi. Un’infanzia difficile ed una adolescenza senza scosse. E una gioventù scandita dal ritmo lugubre dei drammatici periodi di guerra e della prigionia in campo di concentramento, fattori che avevano pesantemente inciso sul suo carattere. Tuttavia, Antonio non era uomo privo di sentimenti e, seppure soffrisse atrocemente per quella sua vita scialba, forse un po’ troppo supinamente accettata, in cuor suo era stato comunque capace di amare veramente una donna: Esterina. Con lei non c’era stata una vera e propria relazione: l’innata timidezza e la pessima considerazione di se stesso aveva prodotto come uniche iniziative qualche serata al cinema ed a discorrere lungamente del più e del meno come si può fare con una buona amica, non trovando ma il coraggio per andare oltre quelle banalità e, meno ancora, darle ad intendere i suoi veri sentimenti. Così Esterina, che nei suoi confronti qualcosa aveva pur provato, si era stufata della sua ignavia ed un giorno, cedendo ad un uomo che le aveva fatto la corte, l’aveva sposato e se n’era andata a vivere con lui. Da allora, Antonio non l’aveva più vista, né avuto sue notizie: Esterina sembrava scomparsa per sempre dalla sua vita, come una visione sfuggente, un sogno e nulla più.
Anziché cadere nella disperazione, forse perché, per sua fortuna, non in grado di immaginare come la sua esistenza potesse ulteriormente peggiorare, Antonio riuscì a trovare qualcosa con cui consolarsi: la sua innocente fantasia l’aiutò a crearsi un hobby. Pur continuando la sua vita anonima, tra casa e lavoro, Antonio riuscì a mantenere quell’hobby sempre fisso nella mente, fino a quando, lasciato il servizio per raggiunti limiti di età, gli fu possibile dedicare ogni sua attenzione a quell’unica passione che avrebbe voluto mantenere tale fino alla fine dei suoi giorni. Era dunque riuscito, dopo tempo immemore, a dare un vero scopo alla sua esistenza!
L’hobby di Antonio era di una semplicità disarmante, anche se molto particolare. Consisteva nell’andare tutti i giorni nel vicino parco, sedere su una panchina di legno che col tempo aveva perso ogni colore e lasciava trasparire sempre più larghe fette di legno ruvido e grezzo e…parlare con le foglie. Con le foglie degli alberi che attorniavano quel tratto di parco: quelle semplici dal margine seghettato dell’olmo, quelle “palmate” come il palmo della mano dell’acero, quelle composte dell’ippocastano, quelle leggere bianco-feltrose del pioppo, quelle eleganti e sottili della betulla. Ed a loro, Antonio aveva preso a raccontare la sua vita: il triste passato ed il non meno triste presente, i suoi desideri nascosti, i suoi sogni nel cassetto, e così, giorno dopo giorno, le metteva al corrente delle sue cose, di ogni accadimento, come stesse perpetuando la sua vita su un registratore.
Mentre Antonio era intento a conversare con le sue foglie, a confidare ogni suo segreto, la vita scorreva attorno a lui consueta ed abitudinaria: c’erano i bambini che giocavano correndo nei prati, le giovani donne che spingevano le carrozzine dei neonati, le coppie di fidanzati che cercavano anfratti meno illuminati per scambiarsi effusioni e molti altri come lui, che camminavano con passo triste e stanco, come in processione, e si sedevano poi esausti sulle panchine a contemplare il nulla. D’estate, le sue foglie lo riparavano dal sole, gli rinfrescavano l’aria. Erano loro che lo alleviavano dalla calura e dall’afa stagnante delle sue stanzette che abbandonava per andare nel parco. Molte volte, rimaneva seduto sulla panchina tutta la n otte fino a quando, a forza di fissarle e di dialogare con quel suo speciale alfabeto, si addormentava beato. S’intristiva solo quando giungeva l’autunno, che faceva cadere le foglie dagli alberi e gli impediva di intrattenersi ancora con loro. Ma poi, passato anche l’inverno, quando finalmente arrivava la primavera, Antonio ritornava felice e gioiva nel vedere le gemme spuntare, diventare fiori poi, foglie, quasi che fosse lui, con il suo sguardo pieno di amore, a guidare i possenti raggi del sole, a “smuovere” la natura.
Ed erano quelli, in fondo, gli unici veri momenti di felicità di tutta la sua vita.
Un pomeriggio di fine autunno, sarà stata l‘ora insolita, sarà stato il tempo uggioso, sarà che i ragazzini erano ancora a scuola od a fare i compiti, o sarà che i vecchietti come lui avevano deciso di rimanere rintanati in casa a consolarsi dei loro acciacchi, il parco era insolitamente deserto e silenzioso. Gli alberi erano ormai quasi del tutto spogli e le amiche foglie giacevano sparse qua e là a fare da tappeto sui prati e suoi viottoli. Ma per uno solo come lui, anche un albero spoglio e poche foglie ingiallite assumevano sembianze tali da farlo sentire già in compagnia.
Antonio sedette sulla solita panchina sempre più malandata e si guardò distrattamente attorno. Nessuno. Non c’era anima viva. Accanto a lui c’era solo una grossa foglia ingiallita del platano, dal lungo picciolo, con le venature rinsecchite, dure e spesse che somigliavano molto a quelle disegnate sul dorso delle sue mani incartapecorite. Guardò a lungo quella foglia e si specchiò in essa: era secca e appassita, come lui.
D’un tratto, vide una foglia staccarsi da un ramo di betulla e librarsi su suo capo, scendere lentamente e posarsi proprio vicino a quella del platano. In confronto, la foglia di betulla appariva piccola e delicata, con un gambo sottile di colore rossiccio e dalla forma ovoidale che vagamente gli ricordava quella di un cuore.
Antonio chinò il capo ad osservare la nuova venuta, la fissò quasi accarezzandola con lo sguardo quando, d’improvviso, gli parve che qualcuno invocasse il suo nome: «Antonio…Antonio…» udì una voce chiamare. Si guardò intorno, scrutando attentamente: non c’era anima viva. Mosse anche più volte il capo per scorgere se ci fosse qualcuno nascosto dietro il tronco di un albero. Niente.
Non c’era nessuno. Il parco era sempre deserto.
Dopo aver guardato ancora più a fondo, a destra e a sinistra, ritornò con gli occhi alle due foglie sulla panchina.
Sobbalzò.
Accanto a lui, al posto della foglia di betulla, adesso c’era una donna. La guardò, allibito. Si stropicciò gli occhi, ma quella figura femminile continuava a restare seduta accanto a lui.
«Antonio…» disse ad un tratto la donna con una voce che somigliava a quella che poco prima l’aveva chiamato, «…Antonio, non mi riconosci?».
Lui la osservò attentamente, si concentrò, ma non riuscì a scorgere somiglianza alcuna.
«Davvero non mi riconosci, Antonio?» disse ancora lei.
Antonio aprì le braccia, sconsolato. «No…non saprei…chi…» balbettò.
«Antonio, sono Esterina. Adesso, ricordi? Esterina!». E gli sorrise.
Antonio compì un balzo sulla panchina. «T…tu, Esterina?».
«Sì, sono proprio io…sono dunque così cambiata, da allora?».
Antonio rimase per qualche istante muto e sorpreso. La donna che gli sedeva accanto aveva lunghi capelli bianchi, il suo viso era raggrinzito con delle profonde occhiaie, ma gli occhi erano sempre mobili e intensi, “scuri come il carbone”, come lui soleva definire quelli di Esterina. Eppure, si domandò, quegli occhi non potevano che appartenere a lei e chi, poi, avrebbe potuto chiamarlo per nome se non Esterina?
«Sono invecchiata, molto invecchiata, non trovi?» disse lei, come gli avesse letto nel pensiero. Ma intanto continuava stranamente a sorridergli.
«Beh, sai…il tempo passa per tutti,» rispose Antonio. «Guarda io, mi debbo appoggiare ad un bastone per camminare…». Ma le sue parole sembravano uscire dal tronco dell’albero alle sue spalle talmente suonavano forzate, inattese. Gli sembrava impossibile che l’onda del tempo fosse stata così crudele da trasformare l’esuberante bellezza di Esterina in quella figura di vecchia appassita e sfiorita. «Come mai sei qui?» le domandò poi tirando fuori un barlume di coraggio. O forse il suo era il coraggio della disperazione?
Esterina posò una mano su quella di Antonio e prese a raccontare, a narrare la sua vita da quando si erano lasciati.
Antonio venne così a sapere che dopo il matrimonio le cose non erano andate per il verso giusto; le incomprensioni con il marito, un figlio che aveva preso una brutta strada e la prematura nascita di un secondo figlio morto quasi subito erano state le principali cause che l’avevano portata a separarsi dall’uomo che forse un po’ troppo affrettatamente aveva sposato. Sola, con quel figlio che la picchiava e le spillava soldi per comperarsi la droga, era stata ridotta a prostituirsi se non altro per evitare di fare una fine ben peggiore. E così, poco a poco, la vita le era sfuggita di mano ed anche il suo bel corpo fresco ed avvenente era sfiorito e divenuto l’ombra di quello che era. E che Antonio aveva mantenuto da sempre impresso nella mente.
«E tu, Antonio, che cosa hai fatto finora?» domandò Esterina terminato il suo racconto.
Antonio si schermì. «Io non ho molto da dire…il solito lavoro, poi la pensione…la solitudine. Ed eccomi qui, ridotto come puoi ben vedere…».
«Già, povero Antonio, ti ho fatto soffrire…».
«No. Non è colpa tua…con me credi che saresti stata meno infelice?». Le rivolse quella domanda senza nemmeno sapere perché. Ma sentì che doveva chiederglielo, prima o poi, anche se era ormai un po’ troppo tardi per porvi rimedio.
Anziché attendere risposta, Antonio le domandò ancora: «Perché tu, adesso, sei venuta qui da me?».
Esterina sorrise ancor più dolcemente. Il suo sorriso le rasserenò il viso che sembrò miracolosamente ritornare fiorente e giovanile. Bello e attraente come nel passato E attorno a lei, d’un tratto, ogni cosa si illuminò ed anche Antonio la rivide bella e desiderabile com’era stata da giovane. Quasi che il tempo si fosse cristallizzato nell’attimo di quel loro ultimo incontro, quando lei gli aveva detto che se ne sarebbe andata per sempre da lui per sposare un altro.
«Ma perché sei qui?» ripeté Antonio ancora stordito.
«Per stare con te, Antonio» rispose Esterina con la voce suadente di allora.
Antonio questa volta non si diede per vinto e neppure lontanamente volle pensare che si trattasse solamente di un sogno. Ma la realtà, però, stava lì e non poteva trascurarla, anche volendolo. «Suvvia, guardami, ora. Cosa posso ancora offrirti? Sono un povero vecchio, malandato in salute e non ho quasi da campare. Vorresti dividere gli stenti con uno come me?» disse in tono quasi disperato.
Ma Esterina continuò a sorridere.
«Forse non mi sono spiegato,» aggiunse Antonio sconsolato.
«No, sono io che non mi sono fatta capire. Vedi Antonio, io, come posso dire…sono in un’altra dimensione…guardami, ora, come mi trovi?» e così dicendo, Esterina avvolta da una luce sfolgorante, appariva ancor più giovane e bella di quando lui l’aveva incontrata la prima volta.
Antonio dovette pararsi gli occhi per non venire accecato tanto forte era il chiarore che avvolgeva quella figura luminosa ed irreale.
«Tu…tu…forse…intendi…» farfugliò dopo lunghi attimi di sbigottimento.
«Sì, Antonio. E’ proprio come tu stai pensando. Io sono…».
Lui non le lasciò terminare. «Dunque tu…saresti…sei morta?».
«Io sono solo in una dimensione diversa dalla tua, Antonio. Prova ne sia che tu mi percepisci».
«Sì! Sì!».
«Ne sei sicuro?».
«Sì! E ti vedo…ti vedo!» aggiunse Antonio con vigore. «E sei bella…bella…bella come, come…». Ma non riuscì a terminare la frase che gli venne un groppo in gola e sentì che le lacrime gli stavano bagnando il volto. Si mise a piangere come un bambino.
«Non devi fare così, perché se tu lo vorrai…potremo stare insieme, per sempre. Ed io ai tuoi occhi sarò per sempre bella, bella come allora» aggiunse Esterina accarezzandogli il volto.
«Ma, come?» domandò quasi come un urlo Antonio.
«E’ sufficiente che tu lo desideri…che tu mi voglia seguire…».
«Certo che lo desidero. Sono vissuto finora solo per questo. Ma…».
Esterina non smise di sorridergli. «Capisco le tue perplessità, Antonio,» disse, «però basterebbe solo che tu ti sforzassi di immaginare di venire con me…e poi vedrai, qualcosa accadrà. E saremo felici, noi due, per sempre».
«Figurati se non lo voglio» fece Antonio estasiato.
«Allora andiamo, Antonio caro».
Ed Esterina prese la mano di Antonio fra le sue. «Andiamo…andiamo…» mormorò poi con voce soave.
Antonio sentì come se una forza superiore lo spingesse verso l’alto. Si trovò inspiegabilmente leggero, senza affanni, mentre una luce potentissima ed abbagliante avvolgeva tutto ciò che c’era intorno. Come se l’intero sole fosse sceso sulla terra in quel tratto di parco. Serrò con tutte le forze le mani di Esterina e si afferrò a lei come avesse paura di perderla di nuovo, proprio adesso che l’aveva ritrovata dopo un’intera vita trascorsa a pensare a lei, nella speranza di incontrarla un giorno. Finalmente, “quel giorno” era arrivato!
E rimasero così, a specchiarsi uno nell’altra, gioiosamente.
Il mattino successivo, sulla panchina del parco erano rimaste solo più le due foglie.
Alla prima folata di vento, quelle due foglie presero ad alzarsi e librarsi nell’aria. Ed a volare nel cielo fattosi nuovamente azzurro e limpido.
Salivano, salivano, sempre più su.
Ed innalzandosi, volteggiavano, danzando nel firmamento, sempre insieme. Unite in una sola figura. Bellissima.
Come due giovani innamorati che camminano tenendosi per mano.
Pubblicato il 2011-05-24 10:10:59.
Questa pubblicazione è stata richiesta 1 volte.