Mario T. Barbero
Il Cantore di Confucio
(Ed.NOUBS)
L’oratore dalla spesse lenti diede inizio con piglio severo alla conferenza. Poi, come se una grande nuvola avesse oscurato improvvisamente il cielo, tacque e percorse con lo sguardo ogni angolo del salone immerso nelle luci soffuse. Le poltrone erano in prevalenza vuote e il suo occhio attento ebbe un attimo di smarrimento: esigenze di carattere organizzativo avevano impedito di piazzare la prolusione in data più felice che non l’ultimo giorno dell’anno.
Una vera iattura!
Gli veniva la tentazione di picchiare un pugno sul tavolo per scaricare la tensione e attrarre l’attenzione. Lo strano silenzio di quel pubblico dava ad intendere che il loro interesse fosse rimasto fuori dall’aula.
Con imbarazzo, cercò a più riprese di mettersi a suo agio nella scomoda poltrona e dopo un leggero colpo di tosse si concentrò sulla parte introduttiva della conferenza…anzi, cercò più volte di concentrarsi ma, inspiegabilmente, la cosa pareva proprio impossibile.
Le quattro paia di gambe di prima fila, nella loro completezza anatomica, così armoniche e deliziose quasi fossero parte integrante della grazia melodica di un immaginario Quartetto di Boccherini, fecero vacillare anche le sue più lodevoli intenzioni. Con il solo intento di trovare una posizione più consona e rilassante, e così ridurre le aggressioni di una conferenza di un paio d’ore, pur senza malizia, le ragazze si muovevano in continuazione, con la regolarità di un metronomo. Cosicché le gonne corte e attillate, con il ritmico sovrapporsi di una gamba all’altra, rischiavano di produrre un risultato devastante sulle capacità di concentrazione dell’oratore.
Per salvarsi, gli occhietti vispi del professor Brown, noto e stimato lettore di Confucio, provarono a difendersi cercando le aree più neutre dell’anfiteatro. E nel vagare, la sua mente si era lungamente soffermata sulla tristezza del congedo dopo oltre quarant’anni di docenza: eppure, mai come in quel momento, il già temuto evento sembrava lasciarlo del tutto indifferente. Provò allora a riflettere sulla misera pensione che gli sarebbe stata corrisposta, ai lunghi e monotoni giorni che lo attendevano, alla sicura mancanza di stimoli e alla spietata inerzia del tempo senza attività né imprevisti.
Neppure tal molesto pensiero riuscì a fargli trovare la concentrazione.
Il professor Brown fece ancora ricorso a collaudati itinerari mentali circa la salute sconfitta dagli acciacchi, alla monotonia di una vita solitaria con schemi di vita e spazi ormai raggruppati in poche vie e in poche stanze, allo stesso pregnante ricordo, tratto dall’oblio, della sua sposa che da tempo lo aspettava in un’altra dimensione.
Nessun effetto!
In pochi istanti, passò in rassegna i lontani anni a partire dal giovane baldanzoso apprezzato intenditore del bello femminile, all’uomo maturo, fino all’anziano professore come poteva risultare in quel momento agli occhi del pubblico…ebbene, non riuscì a notare neppure un reale interesse che potesse interrompere la continuità della distrazione violenta portata dallo spettacolo femminile di grazia, morbidezza e soave mistero appena velato.
Poi, come per incanto, quasi lo avesse sfiorato la bacchetta magica dell’eterna giovinezza, sentì svanire ogni preoccupazione, ogni sentimento di tristezza e di malinconia. In luogo delle parole scontate che sentiva uscirgli di bocca, arrivò alle sue orecchie il suono dolce e carezzevole di un festoso concerto e il professor Brown finì per chiedersi chi mai fosse il tipo così professorale e austero che stava usando le sue parole e la sua voce. Dovette faticare alquanto per trovare, dal profondo dell’animo, la forza di volontà per non uscire completamente dal tema che stava trattando, mentre si rendeva conto di pericolosi alleggerimenti e delle parole troppo aeree per la severa Accademia in cui si trovava. Agiva con disperazione nel tentativo di un’impossibile coerenza, con lo stesso impegno di chi deve produrre lo sforzo decisivo per conquistare l’oro olimpico. Quando finalmente riuscì a trovare la giusta concentrazione e il ritmo iniziale, cercò rapidamente di mettere ordine ai pensieri, come il burattinaio che raduna i fili delle marionette prima della grande scena finale. Per guadagnare ancora qualche istante e stemperare quel breve senso di turbamento, si schiarì ripetutamente la voce.
Aveva riacciuffato il comando della situazione!
Si aggiustò il farfallino, guidandolo con i polpastrelli tondeggianti e si lasciò andare a proprio agio contro lo schienale della poltrona. Poi riprese perentorio, tracciando un esauriente ritratto di Confucio, dall’infanzia povera e oscura, alla saggezza delle sue parole. Alzò lievemente il tono della voce e con rinnovato vigore recitò: «A chi si stupiva di come avesse potuto apprendere e fare tante cose, lui rispondeva: Dopotutto, il saggio ha forse bisogno di saper fare molte cose?». Poi si fermò, d’improvviso, rimarcando e scandendo bene le ultime parole per migliorare il livello di attenzione dell’assemblea.
Le quattro ragazze, immobili e rapite dalle sue parole, lo guardavano con crescente ammirazione e con una considerazione sicuramente superiore a quanto lo era stata in precedenza. Stavano ora con le ginocchia unite, mentre le gambe erano parallele come le corde di un’arpa: parevano estasiate.
Il professor Brown, ormai da troppo tempo avvezzo a quelle ribalte e con un fiuto particolare per certe situazioni, si rese conto della favorevole impressione che aveva suscitato nella platea, soprattutto nel primo settore della sala. Si rilassò. Poi si versò con studiata calma un po’ d’acqua nel bicchiere, eseguendo l’operazione con gesti misurati e portando lentamente il bicchiere alla bocca con traiettoria semicircolare. In quella breve pausa, scrutò il pubblico dal suo pulpito con la solennità con cui il Capitano Nemo studiava i pesci sul fondo dell’oceano. Adesso poteva continuare con l’agio consueto. La sua esposizione aumentò d’intensità e di calore, unitamente all’interesse degli ascoltatori. Passò quindi a trattare con estrema dovizia i viaggi compiuti dal personaggio oggetto della sua conferenza e con un crescendo rossiniano, dopo quasi due ore di eloquio, riuscì nel difficile intento di sezionare la figura e il pensiero di Confucio. Tossicchiò leggermente e dopo una brevissima pausa, quasi stesse leggendo il testo scritto nell’aria mentre un filo di sudore gli scendeva dalla tempia facendo brillare il grigiore dei capelli, il professor Brown prese a trattare dei paradossi.
«Certi paradossi» fece poi in tono solenne avviandosi a concludere, «ricordano in modo sbalorditivo quelli dei sofisti greci, come nel caso della Freccia che vola e non vola, paradosso destinato a dimostrare l’infinita divisibilità dello spazio». Terminò con un sottile sguardo di compiacimento, cadenzando le ultime parole e chinando il capo come l’attore che ringrazia il pubblico al termine della recita. Mai come quella volta si era sentito parte integrante di una conferenza. Nella breve sequenza di un paio d’ore di un mattino di fine dicembre riprovò emozioni quasi dimenticate di un tempo trapassato, profumato d’incanti e di promesse.
Il caloroso applauso del pubblico e i complimenti dei colleghi gli confermarono che il sogno stava svanendo e seppur attorniato da parole e sorrisi affettuosi, si sentì d’un tratto confuso e…giubilato.
La sala si svuotò rapidamente. Nel passare attraverso due file di giovani, il piccolo professore dall’anonimo vestito grigio incontrò, non del tutto casualmente, lo sguardo luminoso e grato delle quattro ragazze di prima fila. Avvicinandosi alla porta a vetri che dava sulla via, il professor Brown si volse verso di loro e con un sorriso velato di tristezza uscì, lasciandosi inghiottire dal traffico instancabile della città.
Pubblicato il 2011-05-24 10:14:32.
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