Una “nonna” a sorpresa...
La vidi arrivare dal fondo della piazza, la figura un po’ sfocata dalla leggera foschia che velava tutto quanto mi stava attorno. Spingeva una carrozzina e, man mano che mi si avvicinava e il suo aspetto si delineava maggiormente, mi dava l’idea di una persona piuttosto dimessa.
“Forse è una nonna un po’ stanca, o non troppo in salute, e potrebbe esserle faticoso occuparsi di un nipotino”, mi venne da pensare. Quando si trovò di fronte a me, mi apprestai ad allungare il collo; mi viene sempre istintivo abbassare lo sguardo all’interno delle carrozzine, pronta a intenerirmi per i frugoletti che ospitano. Un istante dopo, però, rimasi di stucco: anziché un bimbetto o una bimbetta, il lettino mobile conteneva un grande sacco di tela e una coperta arrotolata su se stessa.
«L’ho stupita, signora?» domandò la donna praticando una stretta, sul naso, alla mascherina chirurgica. Dedussi avesse notato il moto di meraviglia che non ero riuscita a trattenere.
«No, scusi, sono stata indiscreta…» ribattei in preda a un profondo imbarazzo, soprattutto per il disagio che potevo aver suscitato in lei.
«Non è la sola, sa? Capita a tutti. Credono che porti a spasso un bambino invece mi porto dietro la mia casa… è tutta qui!» replicò la donna, accompagnando la frase con un risolino.
Ero in difficoltà, impalata davanti a quella scena e non sapevo che cosa dire né fare. Mi mancava – insolitamente - la favella, la gola era in fiamme e non ce la facevo neppure a deglutire per dar fiato alla voce. Fu lei a venirmi in soccorso.
«Non ci stia male, signora, e sappia che ormai ci ho fatto l’abitudine» esclamò sfiorandomi un braccio.
A quel punto mi diedi una scossa: dovevo pur rimediare al gesto indiscreto che aveva originato la situazione, quindi la invitai a sedersi su una panchina della piazza. «Se non le dispiace» puntualizzai.
Accettò di buon grado, strofinando le mani sulla gonna lisa che ebbi l’impressione rappresentasse l’ultimo strato di altri indumenti, probabilmente per difendersi dall’aria ancora fresca e finanche per mettersi addosso quanto più possibile, per non sovraccaricare troppo la carrozzella.
Acconsentì che andassi a prenderle una cioccolata calda al bar di fronte e ne fui sollevata, perché concedermi una pausa mi avrebbe aiutata a riprendermi dallo choc provato poco prima.
Quando abbassò la mascherina per sorseggiare la bevanda dalla tazza di plastica, mi resi conto di essermi del tutto sbagliata: non doveva avere più di quarant’anni - altroché nonna -, ma la corporatura appesantita dai numerosi indumenti indossati e l’espressione mesta, insieme ai capelli brizzolati e tesi sulla nuca, mi avevano tratta in inganno. La pelle sembrava “cotta” dal sole, però non aveva rughe, se non ai lati degli occhi color nocciola. Le caratteristiche della bocca carnosa e ben delineata avvaloravano l’appartenenza a una persona ancora giovane; soltanto una piega amara formava un semicerchio verso il mento.
Quando ebbe terminato di bere, quasi mi avesse letto nel pensiero, confermò quanto avevo ipotizzato prima di recarmi al bar: «Sono un armadio ambulante; indosso più gonne e più maglie per evitare di far straripare qualcosa dalla carrozzina, già pesante per i libri, la coperta, il cappotto e i pantaloni di lana che tengo preziosi per l’inverno.
Mentre parlava, e dal momento che non aveva ancora rialzato la mascherina, ebbi modo di osservarla meglio: aveva un viso regolare, i lineamenti erano delicati e il suo modo di porsi e di muoversi era discreto, persino elegante quanto la maniera di esprimersi.
«Non è curiosa di conoscere la mia storia»? mi domandò cogliendomi di sorpresa. Non avrei mai osato addentrarmi nel suo privato, se non me lo avesse proposto lei. «Sa, la gente o mi schiva perché faccio ribrezzo, temendo di prendersi le pulci e strattonando i bambini per allontanarli da me persino se mi guardano soltanto, oppure mi “sequestra” per sottopormi a un fuoco incrociato di domande. Lei non mi sembra né del primo tipo né del secondo, ma se vuole e se ha tempo le parlo di quello che mi è successo. È stata tanto gentile con me e non ho molte occasioni di farmi ascoltare da persone educate.»
Mi raccontò quindi la sua vita, mentre io mi stringevo la giacchetta al petto perché si era alzato il vento e lei, che si chiamava Andreina, si faceva aria sollevando l’ultimo strato di gonna…
Era nata alle porte della città, da una famiglia di media borghesia che l’aveva cresciuta nella bambagia, così si era espressa, anche perché era nata quando i suoi genitori non erano più giovani. La madre credeva di essere entrata in menopausa e non aveva creduto alle proprie orecchie quando il ginecologo da cui si era recata le aveva annunciato che sarebbe diventata mamma. L’avevano cercata per tutta la vita matrimoniale, accendendo tanti ceri alla Madonna e andando persino in pellegrinaggio a Lourdes e in vari Santuari della regione, finché si erano rassegnati a farsi compagnia senza avere la gioia di un figlio. Forse l’avevano viziata un po’ troppo, e non escludeva che questa “amorevole debolezza” avesse influito su quello che sarebbe diventato il suo destino, o meglio, la sua vita di adesso. I genitori erano mancati, a distanza di tre mesi l’uno dall’altra, quando lei aveva soltanto diciotto anni. Le avevano nondimeno lasciato quanto bastava per iscriversi all’università e proseguire sino alla fine senza dover lavorare. Il fato aveva però voluto che, dopo il primo anno passato a frequentare l’Ateneo, avesse incontrato il ragazzo che le avrebbe stravolto la vita.
«Era bello, sa? Oh, se era bello, ricorda quell’attore che c’è sulla locandina laggiù, vicino all’ingresso del cinema, lo vede?» mi domandò a quel punto della narrazione, per poi proseguire… «Le amiche me lo invidiavano, erano gelose che avesse rivolto a me le sue attenzioni. Mi regalava fiori, ninnoli, libri, mi portava nei ristoranti e nelle pizzerie frequentate dai VIP e io mi sentivo alle stelle. Amata, oh quanto mi sentivo amata, e quanto lo amavo io! Finché venne il giorno…» e qui si interruppe iniziando a piangere.
Dopo i primi momenti di impaccio, pensai di lasciarla un po’ da sola con le sue rimembranze, per darle la possibilità di riprendersi dalla crisi in cui s’era palesemente imbattuta. Ricorsi al pretesto di volermi acquistare un panino, che proposi anche a lei.
Quando ebbe terminato di mangiare il tramezzino, riprese a raccontare. Venni così a sapere che quel ragazzo tanto bello, e apparentemente innamorato, nell’arco di pochi mesi le aveva fatto dilapidare tutto il patrimonio lasciatole dai genitori, con il pretesto di fare un investimento che avrebbe garantito a entrambi un futuro sicuro e di agi. Quando era giunta al punto da farsi convincere a ipotecare la casa ereditata, aveva cominciato ad avere dei dubbi sulle intenzioni del giovane, ma ogni volta che queste perplessità emergevano lui riusciva a seppellirle sotto una montagna di tenerezze… e di menzogne. Arrivò a perdere anche la casa… e subito dopo lui. Da lì a rifugiarsi nell’alcool e infine nella droga il passo era stato breve. Era precipitata in un pozzo di solitudine e di disperazione tali da cui non era più riuscita a riprendersi.
«Non ho fatto altro che passare da un Centro di recupero e di disintossicazione all’altro, ma ogni volta che uscivo ricominciavo a bere e a drogarmi.»
«Non aveva amiche, amici?»
«Li avevo abbandonati tutti, per isolarmi con lui, e poi mi vergognavo a farmi vedere in quello stato.»
«Ma gli amici veri…»
«Non esistono, se siamo noi per primi che li escludiamo dalle nostre vite. Così avevo fatto io. Magari qualcuno avrebbe avuto pietà di me, ma non volevo pietà e a dire il vero neppure la meritavo. Non lo meritavano i miei genitori, gli amici dei miei genitori…»
«Ma adesso… ancora…» non sapevo come proseguire la frase.
«Vuole sapere se ancora mi drogo? No, da sei mesi non tocco più la “roba”; soltanto il bere, quel vizio non riesco a togliermelo, ma non come prima, anche perché mi posso permettere soltanto robaccia e vorrei farcela a dire basta una volta per tutte.»
«Però… come se la cava a mangiare, a dormire?» le domandai.
«C’è la mensa dei poveri, la chiesa qui vicino mi aiuta e quando non è pieno e trovo posto vado al dormitorio, altrimenti mi arrangio sotto i portici, nelle nicchie della chiesa o su una panchina, quando non piove.»
«La chiesa qui vicino, ha detto…»
«Se la conosce, conosce anche il barbone che è sempre seduto lì davanti. Ci giochiamo le elemosine - da queste parti la gente è piuttosto generosa -, ma lui è famoso molto più di me e ha quasi sempre la meglio, d’altronde c’è da oltre vent’anni… Lo sa che è laureato e anche lui è riuscito a mangiarsi tutta l’eredità dei suoi e parte di quella della sorella?»
Lo sapevo. Lo so. È una creatura dolce e colta, educatissima, ma gli stessi vizi che hanno distrutto Andreina hanno dilaniato pure lui. Anime vaganti per un mondo che sovente non fa abbastanza per aiutarli, per capirli… che non riescono a riemergere dai sottosuoli della dignità umana, che veleggiano al di sotto dei marciapiedi, boccheggiando alla ricerca di un po’ d’aria pura, di una parvenza di antica, scordata e agognata rispettabilità.
«Andreina… posso fare qualcosa per lei?» le domandai nel momento in cui i raggi del sole avevano sconfitto la foschia, e il loro tepore aveva scaldato le mie mani. Ma non il mio cuore, raggelato da quel racconto.
«Più dell’aiuto e dei vestiti che mi ha offerto di portarmi, gentile signora, può pregare per me, perché possa restituire ai miei genitori un po’ del tanto orgoglio che provavano per me, quella figlia insperata arrivata troppo tardi, che avrebbe fatto meglio a non nascere, tanto oramai si erano rassegnati…»
«Non dica così, proprio per amor loro non può pensare questo…» le dissi stringendole le mani, anche se le regole pandemiche non lo avrebbero permesso.
«No, non lo meritano, come non meritavano una figlia come me, ma se lei prega, se può pregare, chieda che possa riprendermi un po’ di dignità, per amore loro…»
La guardai allontanarsi con passo lento, sicuramente per la fatica di dover spingere la carrozzina così carica di tutto quel peso, ma ancora più, mi dissi, per il peso di una vita che non era stata generosa con lei. Quella richiesta, però, quella richiesta di pregare per la riconquista di un po’ di dignità, mi fece ben sperare…
Sulla piazza, il sole era diventato talmente caldo e splendente che, quando avevo provato ad alzare lo sguardo, ero stata costretta ad abbassarlo per non venire abbagliata da tutta quella luce… Quella luce che, mi auguro, possa presto raggiungere e scaldare il cuore e la speranza di Andreina…
Luciana Navone Nosari
Pubblicato il 2021-10-21 18:02:51.
Questa pubblicazione è stata richiesta 1 volte.